1.L’olio dalle olive.

L’olio d’oliva ha, come è noto, origini antichissime: la ricerca archeologica ha consentito di ritrovare traccia di antichi frantoi etruschi e romani dove venivano molite le olive. Scrittori romani come Columella nel monumentale trattato “De re rustica” scritto 2000 anni fa mostrano una conoscenza stupefacente dell’olio d’oliva, delle sue caratteristiche e della sua utilizzazione per fini sia alimentari che terapeutici, spesso come veicolo per la somministrazione al malato di altre sostanze.

Nel Medioevo la situazione muta: arrivano nella penisola altri popoli con tradizioni alimentari diverse, il signore feudale stabilisce spesso una tassa sulla molitura delle olive, i frantoi sono pochi perché richiedono un sia pur minimo investimento di capitale, difficile a trovarsi in una economia depressa in cui predomina il baratto. L’uso dell’olio resta soprattutto nelle regioni meridionali, dove l’olivo dà maggiori frutti: i grassi alimentari prevalenti, specialmente nelle regioni settentrionali, dove più diffuso è l’allevamento di bovini e suini, divengono quelli di origine animale (burro, lardo, strutto) che costano meno e si possono produrre senza particolari attrezzature. L’olio riguadagna terreno nel Rinascimento, quando la fine del regime feudale e la nascita dei liberi comuni fanno venir meno gli antichi balzelli. Ricomincia a circolare il denaro, cresce il livello di vita e aumentano i consumi. Si investe nella costruzione di nuovi frantoi, nasce l’artigiano dell’olio (il mastro oleario) che vende il suo prodotto ai mercanti o direttamente ai consumatori. Nei secoli successivi il consumo di olio e il suo commercio crescono. Nel XX° secolo lo sviluppo industriale tocca anche l’olio d’oliva: si comincia ad apprezzare il fatto che esso non è soggetto ad un rapido deterioramento come invece i grassi di origine animale, è più facilmente trasportabile in grossi fusti, ed ha un gusto gradevole al palato che non si sovrappone a quello delle sostanze alimentari alle quali si accompagna in cucina.


Accanto all’artigiano c’è ora anche l’industriale dell’olio, che non disdegna l’utilizzazione delle possibilità offertegli da nuove tecnologie e dalla chimica per tentare di conseguire maggiori profitti. Negli anni ’30 l’industria trova il modo di utilizzare le sanse, fino a quel momento un sottoprodotto della spremitura delle olive, per ottenere olio, venduto come olio d’oliva, attraverso un procedimento chimico con l’uso di sostanze come la soda caustica. Inizia un periodo di confusione: l’olio ottenuto dalla molitura delle olive e quello oggetto di artifizi chimici, viene tutto commercializzato come “olio d’oliva”. Al centro dell’attenzione c’è ormai l’olio prodotto dagli industriali oleari, mentre gli antichi frantoi artigiani sembrano destinati alla progressiva estinzione. La voce della  “Enciclopedia Treccani” in un volume pubblicato nel 1935 dà minutamente conto delle nuove macchine per ottenere olio d’oliva e degli (allora) nuovi procedimenti per ottenere olio dalle sanse: non una parola è dedicata al frantoio artigiano se non con riferimento ad un passato molto antico.

Gli eventi bellici, la difficoltà di distribuzione dell’olio prodotto dalle industrie, la scarsa disponibilità delle olive che, se non frante rapidamente rischiano di diventare scarsamente utilizzabili, danno nuova vita ai frantoi di prossimità: l’olio diviene di nuovo un bene prezioso.

Negli anni ’50 l’industria olearia riprende nuova vita e con essa i processi di esterificazione delle sanse ed insieme le frodi più sofisticate, fino alla produzione di una sostanza spacciata per olio e ottenuta partendo dagli zoccoli da cavallo.

Finalmente nel 1960 interviene una legge che distingue l’olio extravergine d’oliva, prodotto direttamente dalle olive, da altri tipi di olio, ottenuto con l’aiuto della chimica.

È una divaricazione destinata a crescere con il tempo, anche perché sempre più complessi e sofisticati divengono gli artifizi per conferire all’olio quelle caratteristiche che consentono sia qualificato, in base alle norme vigenti, come extravergine di oliva, ingannando così il consumatore. A difendere la tradizione e con esso la genuinità del prodotto restano, accanto agli industriali che rifuggono dalle frodi, gli artigiani che, anche per la dimensione dell’azienda, non usano quegli artifizi per i quali nemmeno posseggono le attrezzatura necessarie.

La nascita della Comunità economica europea segna un punto importante nella produzione e commercializzazione dell’olio d’oliva: le direttive comunitarie, che stabiliscono le caratteristiche dei prodotti, tra cui l’olio, al fine di assicurare condizioni di eguaglianza tra produttori dei diversi Paesi della comunità, impongono una serie di regole, recepite nelle legislazioni nazionali. La normativa a proposito dell’olio riguarda le sue caratteristiche chimico-fisiche, l’odore, il sapore, l’etichetta della confezione, mai il processo produttivo: ciò che conta, e non potrebbe avvenire diversamente, dati i fini perseguiti, è che l’olio e la sua etichetta abbiano caratteristiche che garantiscono la libera concorrenza tra produttori nei confini della Comunità.

Ciò dovrebbe servire ad eliminare le frodi, ma spesso non è così: la tecnologia e la chimica corrono più veloci delle leggi nazionali e comunitarie. La libertà di compiere le scelte produttive più opportune per affrontare la concorrenza diviene per l’olio, come per tanti altri prodotti, il grimaldello che scardina le regole, in una continua rincorsa tra ricerca delle falle della rete e la loro chiusura, sempre purtroppo tardiva. Anche la attuazione del regolamento CEE 1974/2006, con la istituzione del sistema di qualità nazionale olio extravergine di oliva, si muove – e non potrebbe essere altrimenti date le accennate premesse – nella linea della qualificazione del prodotto: continua a restare lo spazio grigio della qualificazione del processo, problema che oggi sembra poter trovare soluzione con appositi disciplinari di produzione corredati da una normativa etica che fornisca solide garanzie per il consumatore. Certamente sono stati fatti notevoli passi avanti in questa direzione: la recentissima legge in corso di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Sulla qualità e trasparenza della filiera degli oli d’oliva extravergini è l’ultima tappa in ordine di tempo di questa lunga marcia. Essa però ancora una volta riguarda il prodotto: occorre dunque colmare l’ultimo vuoto  – il processo produttivo – per chiude il cerchio della tutela. Almeno per quanto riguarda l’olio prodotto dalle aziende artigiane gli strumenti, come si dirà più avanti, già esistono.

2.L’olio e l’artigiano.

L’artigiano secondo l’etimologia della parola (dal latino ars, arte) è l’artista: una persona che elabora le materie prime in base a regole che appartengono alla tradizione ed alla cultura in senso materiale del territorio in cui vive, interpreta quelle regole in base alla sua sensibilità, al suo estro, alla sua abilità personale, e giunge infine ad un risultato, un prodotto della sua creatività che, venduto ad altri, gli procurerà quanto necessario per vivere.

Nel nostro paese il periodo d’oro dell’artigianato è il medioevo.

Gli artigiani tengono bottega: il maestro, il mastro come si diceva a quei tempi, nella bottega ha una schiera di giovani apprendisti che lavorano sotto la sua direzione, apprendono a dipingere cosi come a scolpire il legno o il marmo, a tessere la lana o a elaborare gioielli, a molire il grano nel mulino per ottenere la farina o le olive per ricavarne olio. Nella Firenze del ‘200 le corporazioni in cui si riunivano gli artigiani erano ben 21 delle arti maggiori e 14 di quelle minori: tra queste ultime l’arte degli olaioli, di coloro cioè che frangevano le olive nel frantoio, con le grandi ruote di pietra, per estrarre l’olio. La corporazione divenne tra le più potenti della Firenze medicea: ad essa si aggregarono infatti i pizzicaroli e poi anche i beccari; una specie di holding dell’alimentazione dalla quale restano fuori mugnai e fornai. Non è da meravigliarsi se ancora oggi ci sono negozi che vendono solo pane ed altri solo formaggi e salumi: è una tradizione che nasce ben nove secoli fa e che i supermercati stanno mettendo oggi in crisi. Caratteristica della corporazione e di ogni corporazione medievale era di avere regole precise di produzione che erano insieme un disciplinare di produzione ed un codice etico: ”chi non rispettava quelle regole era espulso dalla Corporazione”: in pratica non poteva più esercitare la sua attività.

Passarono gli anni, i secoli: le corporazioni si dissolsero, gli artigiani continuavano la loro attività osservando le antiche regole apprese nelle botteghe; anche se non esisteva più una autorità che ne imponesse il rispetto. Alcuni mestieri decaddero perchè venne meno la necessità di questo o quello specifico prodotto; accadde ad esempio per i corazzai che fabbricavano corazze o per i correggiani specializzati nella lavorazione dei finimenti per i cavalli. Altri, ed in particolare quelle legate ai bisogni elementari della persona – mangiare, vestirsi, curarsi se malato – restarono vivi e cambiarono i modelli di riferimento. Gli speziali, ad esempio, sono gli avi degli attuali farmacisti. È quanto accadde anche per gli oliandoli: i frantoi, sotto gli occhi vigili dei mastri oleari, continuarono a molire le olive. L’olio ottenuto veniva poi venduto o consegnato al proprietario delle olive dietro pagamento del servizio reso con la molitura. Le regole cambiarono poco: restarono quelle della tradizione ed il mastro oleario continuò, metà imprenditore e metà artista, a decidere sulle miscele di cultivar da utilizzare, sui tempi di decantazione dell’olio, sulla idoneità del grado di maturazione delle olive per ottenere un buon olio.

Nessun olio di frantoio era uguale ad un altro, ieri come oggi: il senso della produzione artigiana era proprio – ed è ancora oggi – nella diversificazione degli aromi, dei sapori, cosi come diversa era – ed è – la interpretazione, per cosi dire, delle regole da parte del mastro oleario, e la miscela delle cultivar usate, da porsi a sua volta in relazione alla natura del terreno in cui vegeta l’ulivo, alle condizioni climatiche della zona, alla scelta dell’agricoltore a favore  dell’una o dell’altra cultivar. Via via che aumentavano i consumi, i frantoi divennero sempre più importanti nell’economia agricola ad un punto cruciale tra produttori di olive e consumatori di olio: non di rado i grandi possidenti terrieri si preoccupavano di avere tra le loro proprietà anche un frantoio, per realizzare lauti guadagni, ottenuti soprattutto anticipando il prezzo del raccolto ai produttori di olive avendo in cambio il prezzo più basso.

3.Artigianato e industria.

Nell‘800 quando si avviò faticosamente in Italia il processo di industrializzazione, la nascente industria tese subito a relegare entro stretti confini l’artigianato: la produzione in serie consentiva un prezzo piu basso del prodotto che tendeva ad imporsi su quello artigianale molto spesso a scapito della qualità. I salari industriali, anche se non elevati, erano sempre migliori di quelli degli apprendisti artigiani: i giovani subivano il fascino della fabbrica e non più quello della bottega artigiana. Era ovviamente impossibile fermare il corso della storia e nessuno in verità pretese di farlo: talvolta gli artigiani diedero un piu ampio respiro alla loro attività, scelsero la strada della produzione seriale e trasformarono la bottega in una piccola industria che talora nel tempo assunse via via maggiori dimensioni. Altri restarono fedeli all’antico mestiere, alla produzione fatta di estro e abilità manuale pur utilizzando anche le macchine, prima con funzionamento a vapore poi a corrente continua si poteva in tal modo evitare almeno in parte la fatica dell’uomo e degli animali – ad esempio l’asino  – di cui ci si era avvalsi fino a quel momento. Il mastro oleario continuò la sua fatica: la macina del frantoio non si fermò nemmeno nei periodi più difficili della storia del nostro Paese, i giovani non disdegnarono di lavorare nei frantoi per apprendere un’arte che era sopravvissuta nei secoli e che tutto lasciava prevedere che avesse lunga vita.

L’industria olearia non disdegnò il ricorso, a partire dagli anni ’30, a tecniche quale quella delle esterificazione dei grassi, che nulla avevano a che vedere con la tradizione olearia ma che consentivano di produrre olio a basso prezzo. La difesa dell’artigianato in questo e in tutti i campi in cui operavano da secoli gli artigiani divenne un obiettivo necessario da perseguire per il potere pubblico: si trattava di garantire la sopravvivenza del lavoro artigiano e di salvaguardare così un aspetto della storia, della cultura e della tradizione del nostro Paese.

L’orientamento dello Stato in tal senso emerse già nel periodo fascista con la nascita delle varie corporazioni tra cui quella dell’artigianato, che significava implicitamente riconoscere una specificità di quella attività rispetto all’attività industriale, e alla piccola industria in particolare. Nel secondo dopoguerra il rapido sviluppo industriale che sembrò non conoscere limiti in tutti i campi, rischiò di spazzare via l’artigianato italiano senza troppe distinzioni per l’attività svolta: il prodotto industriale sembrò avere conquistato – o sul punto di conquistare – tutto lo spazio di mercato.

Ancora una volta intervenne il legislatore: con la legge n. 860 del 25 luglio del 1956 fu individuata per la prima volta l’impresa artigiana, distinta dalla piccola industria, e stabilita una disciplina delle attività artigiane e di addestramento presso le botteghe – scuola, cosi definite sulle tracce delle antiche botteghe d’arte medievali. Si aprì in tal modo la strada per un sostegno pubblico, anche se indiretto, delle attività artigianali,  garantendo implicitamente la continuazione della loro presenza sul mercato, anche se molto limitata e solo nei settori tradizionali dell’attività stessa.

La legge 9 agosto 1958 n. 43, successivamente modificata con la legge 20 maggio 1997 n. 133 e con l’art 13 del collegato alla legge finanziaria per l’anno 2000, ha proseguito per la stessa strada, pur tenendo conto dell’avvenuta costituzione delle Regioni a statuto ordinario e della loro competenza legislativa concorrente ed amministrativa in materia di artigianato.

Il perno su cui ruota la legislazione vigente è la definizione di impresa artigiana, e le caratteristiche che essa deve avere, lasciando alle Regioni di emanare proprie leggi per disciplinare ulteriormente la materia (ad esempio l’apprendistato, le misure per valorizzare il lavoro artigiano, il sostegno indiretto attraverso mostre, fiere e mercati diretti a valorizzare il prodotto artigiano).

4.Il frantoio e l’olio artigiano.

Non esiste una definizione giuridica di frantoio: nel linguaggio comune è il luogo dove vengono frante, cioè schiacciate le olive per ottenere l’olio. Un tempo la frangitura avveniva con macine di pietra, grandi ruote fatte girare da un asino o da un mulo bendato ed attaccato ad una stanga di legno. Oggi la realtà è molto diversa: le macchine sono sempre più sofisticate, è usata l’energia elettrica e non più quella animale, il mastro oleario dispone di una serie di strumenti di facile uso per ottenere il risultato voluto quanto a gusto, densità e colore dell’olio, sempre senza l’aggiunta di addittivi o il ricorso a procedimenti chimici.

Anche per quanto riguarda l’olio, il prodotto artigiano è concorrente a quello industriale.

La competitività del prodotto non avviene con riferimento al prezzo ma alle caratteristiche del prodotto stesso, specificamente legato alle scelte del produttore, ed alle sue caratteristiche specifiche, oltre naturalmente a quelle richieste dalle norme italiane e dalla comunità europea.

La differenza tra un olio e l’altro non è facilmente percettibile da parte del consumatore in base alle indicazioni contenute in etichetta, molto sommarie, anche se l’indicazione della produzione e dell’imbottigliamento da parte di un’impresa artigiana dovrebbero –  ma non sempre lo sono –  essere  un indicatore sufficiente per orientare la scelta.

Le indicazioni qualitative, che portano ad emergere il prodotto artigiano, per l’olio come per altri prodotti,  sembrano sempre più destinate a riempire un vuoto, nell’interesse del consumatore, che dovrebbe avere diretta informazione dell’essere o meno, l’olio che si accinge ad acquistare, prodotto e imbottigliato da un frantoio o da altre diverse aziende. Solo quando ciò sarà chiaramente possibile sarà realizzata l’indispensabile condizione per la permanenza sul mercato delle imprese artigiane olearie, condizione essenziale tra l’altro affinché le olive prodotte in Italia continuino ad avere un prezzo remunerativo per gli agricoltori, non schiacciati dalla minaccia di approvvigionamento dell’olio in altri Paesi ed immessi sul mercato nazionale, magari dopo una “ritoccatina” sapiente.

È un pericolo che è opportuno evitare: l’Italia senza gli ulivi e senza i frantoi, che sono il necessario completamento, sarebbe un altro Paese, certamente non migliore (e non solo sotto il profilo paesaggistico) di quello attuale.

5.Olio artigiano e alta qualità.

Le nuove regole relative all’alta qualità dell’olio d’oliva fissano, come si è accennato, parametri del prodotto sui quali viene misurata la qualità. Peraltro anche dopo la emanazione delle nuove norme nella filiera dell’olio extravergine di oliva c’è un salto: dalle olive si passa all’olio ottenuto da esse senza alcun riguardo ai procedimenti di produzione che possono essere molto diversi quanto, ad esempio, alla miscelazione delle diverse cultivar, che rientra nella piena discrezionalità di chi frange le olive. Il nodo della questione è tutto nella possibilità di evitare quel salto e ciò non già in base a norme giuridiche che non potrebbero mai essere esaustive, ma attraverso una collaborazione dei produttori. È quasi ovvio che molto difficilmente questa collaborazione potrebbe essere offerta dall’industria, dato il carattere seriale della sua produzione. Diverso il caso delle aziende artigiane che, agendo su quantità più ridotte, possono garantire tutta l’articolazione del processo produttivo del loro prodotto e la sua conformità al disciplinare di un consorzio liberamente costituito.

Una possibilità in tal senso sembra del resto testualmente offerta dall’art. 6, n.9 dell’emanando decreto istitutivo del sistema di qualità nazionale, laddove è previsto che gli “operatori” (tra i quali sono indubbiamente i frantoi artigiani) per favorire il sistema possono “costituirsi in consorzio riconosciuto dal Ministero con apposito decreto”.

Poiché un consorzio non può non trarre ragione dallo scopo perseguito, con il limite in questo caso di favorire il sistema alta qualità, sembra del tutto normale che lo scopo possa essere quello di garantire al consumatore l’alta qualità anche a proposito del processo produttivo, conforme al disciplinare di produzione adottato del consorzio stesso. In tal modo sarebbe colmato a favore del consumatore e della qualità dell’olio il vuoto tra olive e prodotto e circoscritte al minimo le possibilità, pur sempre da mettere nel conto, di sofisticazioni fraudolente.

Uno o più consorzi di aziende artigiane che frangono le olive e mettono in commercio l’olio prodotto, con la menzione del consorzio stesso e del disciplinare cui le aziende ottemperano sembra dunque la soluzione logica che scaturisce dalla nuova disciplina: se si andasse di contrario avviso, ancora una volta la tutela della qualità del prodotto (e con essa del consumatore) rischierebbe di restare nel limbo delle buone intenzioni.